VII Domenica del Tempo Ordinario – Luca 6, 27-38

VII Domenica del Tempo Ordinario – Luca 6, 27-38 – Anno C

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «27A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, 28benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male.

29A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. 30Dà a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.

31E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. 32Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. 33E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. 34E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. 35Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.

36Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.

37Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. 38Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Matteo (5,44) e Luca (6,27-35) collocano l’imperativo del perdono ai nemici in un discorso in cui intendono sottolineare la differenza (la vera differenza) fra il cristiano e il mondo. Per Luca gli atteggiamenti positivi da assumere nei confronti del nemico sono addirittura quattro, due in più di Matteo: amare, far del bene, benedire, pregare. Amare (agapan in greco) significa, qui come altrove, l’amore pieno, attivo, solidale, preoccupato, che non attende di essere ricambiato per donarsi. Non si aspetta il ravvedimento del nemico per poi amarlo, ma lo si ama già prima. Se si desidera il suo ravvedimento – e per questo si prega – è perché già ci si sente responsabile nei suoi confronti. Così inteso, l’amore al nemico è la punta dell’amore del prossimo. L’amore al nemico, infatti, evidenzia – come non accade in nessuna altra forma di amore – le due note profonde di ogni autentico amore evangelico. Anzitutto la tensione all’universalità: nell’amore al nemico la figura del «vicino» si dilata sino a rinchiudere anche il «più lontano»: chi è più lontano del nostro nemico? E poi la nota della gratuità, che è l’anima di ogni vero amore.

La figura del nemico di cui Luca parla è, possiamo dire, quotidiana, normale: non si tratta del persecutore, ma più semplicemente di chi sparla di noi, ci odia e ci maltratta. Le esemplificazioni concrete sono numerose, e vanno al di là dello stretto ambito del nemico: si parla infatti non solo di chi odia, percuote, ruba, ma anche di chi chiede un prestito senza avere poi la possibilità di ridare. Luca è particolarmente interessato a sottolineare la gratuità dell’amore.

Le motivazioni che giustificano l’amore al nemico sono due: distinguersi dai peccatori ed essere figli dell’Altissimo. Si tratta di comportarsi come il proprio Dio, «benevolo verso gli ingrati e i cattivi». L’aggettivo «benevolo» in greco dice l’amore attento, accogliente, mite, che non fa pesare ciò che dona. E «ingrato» (sempre in greco) sottolinea una volta di più l’assenza di ogni pretesa di reciprocità. Non si ama il lontano perché si avvicini. Lo si ama perché si vuole prolungare sino a lui la benevolenza di Dio.

Sono convinto di dire cose sorprendentemente paradossali. Ma si tratta del Vangelo. E poi, se si guardano le cose più attentamente, si può anche intuire che il perdono è paradossale, ma anche necessario per la convivenza, a ogni livello: nelle relazioni familiari, nelle relazioni amicali, nella società. Addirittura nelle relazioni fra i popoli. Senza un minimo di riconciliazione il mondo non sta in piedi. Un vecchio rabbino soleva dire che quando Dio creò il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi. Poi creò il perdono, e il mondo stette in piedi. (B. Maggioni, biblista)

VI Domenica del Tempo Ordinario – Luca 6, 17. 20-26

VI Domenica del Tempo Ordinario – Luca 6, 17. 20-26 – Anno C

In quel tempo, Gesù, 17disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 20Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. 21Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete.22Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. 24Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. 25Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. 26Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

 

Il quadro introduttivo (Lc 6,17) è molto solenne e preciso: Gesù scende dalla montagna in un luogo pianeggiante e pronuncia il suo discorso circondato dai discepoli e dalla folla. Una folla venuta da ogni dove, persino dalle contrade pagane di Tiro e di Sidone. Il confronto con le beatitudini di Matteo (5,3-12) ci offre il modo di notare tre particolarità proprie della narrazione lucana. Il tono di Luca, ad esempio è più personale di quello di Matteo, più rude e coinvolge direttamente l’ascoltatore («Beati voi poveri»). Inoltre Luca parla di poveri, di piangenti, di affamati, di perseguitati, e tralascia le precisazioni di Matteo (poveri nello spirito, affamati di giustizia). Infine Luca elenca tre guai, che imprimono al discorso un tono quanto mai drastico e radicale (6,24-26).

I profeti hanno descritto il tempo messianico come il tempo in cui Dio si sarebbe preso cura dei poveri, degli affamati, dei perseguitati. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza: «Verrà un tempo in cui i poveri saranno beati». Per Gesù è un presente: oggi i poveri sono beati. La ragione è una sola, fondamentale: la gioia del Regno arrivato. È alla luce del Regno arrivato – Regno che ha capovolto i valori comuni – che si giustifica la paradossalità di queste parole di Gesù.

Luca si accontenta di quattro beatitudini (Matteo ne ha invece il doppio): i poveri, i piangenti, gli affamati, i perseguitati. Nella sua accezione teologica povero non significa semplicemente chi è privo di mezzi, ma indica la situazione del mendicante trascurato, povero accanto a gente ricca, deriso: i piangenti e gli affamati sono sostanzialmente una ripetizione dei poveri. Più che a delle virtù (come invece Matteo) Luca sembra pensare a delle situazioni di fatto, cioè alla moltitudine dei poveri che non hanno cercato la loro povertà e tuttavia sono chiamati a viverla. La quarta (i perseguitati) è la beatitudine del discepolo, di colui che ha scelto di seguire Gesù, trovandosi coinvolto nel suo destino di persecuzione. Da queste osservazioni emerge un severo giudizio sul mondo ricco: un giudizio che si rafforza se si leggono i quattro guai: «Guai a voi ricchi, guai a voi che siete sazi, guai a voi che ora ridete, guai a voi che ora siete applauditi». Nell’interesse della comunità per la quale scrive (Luca scrive per delle comunità che vivono in seno al mondo pagano, in città ricche di benessere) egli stigmatizza il mondo dei ricchi, dei gaudenti, degli arrivati, e lo giudica dall’alto delle esigenze di Gesù. O forse giudica anche alcuni compromessi mondani che la sua stessa comunità era tentata di fare.

V Domenica del Tempo Ordinario – Luca 5, 1-11

V Domenica del Tempo Ordinario – Luca 5, 1-11 – Anno C

In quel tempo, 1mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Genesaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. 8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

 

Anziché soffermarsi sulla chiamata dei discepoli, come fanno Marco e Matteo nei passi paralleli, Luca preferisce concentrarsi sulla forza della Parola (5,1-11). Annunciare la Parola è il primo compito del discepolo, come già suggerisce la scena introduttiva: Gesù, seduto sulla barca di Simone, annuncia la Parola alla folla che accorse ad ascoltarlo.

Il successo della missione del discepolo sta tutta nella forza della Parola di Gesù. Se il discepolo si affida a se stesso la pesca è fallimentare, se invece si fida della parola di Gesù la pesca è abbondante. La risposta di Pietro all’ordine di Gesù («Sulla tua parola calerò le reti»), esprime certamente una grande obbedienza, ma anche, e forse più, una grande fiducia. È infatti in obbedienza a un ordine che la propria esperienza sembra assurda e inutile: «Abbiamo faticato la notte senza prendere nulla». Dunque Pietro si fida della parola di Gesù nonostante le verifiche che potevano giustificare il contrario.

Per Luca il discepolo è colui che intraprende l’esistenza missionaria. Le implicazioni – a questo punto – possono essere numerose. Ma almeno una è indispensabile: la comunità cristiana nel suo sforzo missionario deve essere unicamente ricca di fede nella Parola di Dio: non deve appoggiarsi ad altro, non deve cercare altro, sia pure con la scusa di servirsene per il Vangelo.

Sperimentando la forza della Parola di Gesù, Pietro prova un grande stupore e prende coscienza, improvvisamente, di tutta la sua indegnità: «Signore, allontanati da me che sono peccatore». Il discepolo non deve ignorare il proprio peccato e la propria debolezza, i propri limiti; ne deve avere, anzi, una lucida consapevolezza, ma deve anche sapere che la potenza di Dio sa trionfare sul peccato e sulla debolezza: come Pietro che si decide per il Maestro anche se peccatore. Si decide fidandosi del Signore che dice: «Non temere». La debolezza è superata dalla potenza di Dio.

Da ultimo, il brano di questa domenica si conclude con una sottolineatura della radicalità del distacco: «Lasciarono tutto e lo seguirono». È una sottolineatura conforme alla spiritualità del terzo evangelista: gli è infatti abituale sottolineare la radicalità del distacco, drasticamente, ogni volta che parla delle condizioni per essere discepolo. Qualche esempio: «Vendete tutto ciò che avete e datelo in elemosina» (12,33); «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo» (14,33); «Vendi tutto quello che hai e distribuiscilo ai poveri» (18,21). (B. Maggioni, biblista)

Solennità di San Giovanni Bosco – Matteo 18, 1-6 / 10

Solennità di San Giovanni Bosco – Matteo 18, 1-6 / 10 – Anno C

In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me. Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli.

Esegesi
II brano proposto per la festa di San Giovanni Bosco si trova all’inizio del quarto discorso programmatico di Matteo (discorso ecclesiastico), che si compone di vari brani messi insieme, senza uno stretto nesso logico: l’idea madre che li unisce è l’insegnamento impartito da Gesù ai suoi discepoli circa la condotta da tenere nella loro mutue relazioni. Tra le fondamentali disposizioni vengono indicati lo spirito d’infanzia (1-4) e la sollecitudine per i deboli (5-9) della nostra pericope.

CHI E’ IL PIÙ’ GRANDE (1)
La domanda è importante, perché viene riportata dai tre Sinottici (Me 9, 45-50; Le 9, 46-48) e perché sono i Dodici che la fanno. Gesù aveva sempre presentato la vita con il Padre nell’ai di là come un regno, quindi come una gerarchia, nella quale gli Apostoli sperano di avere il posto migliore. La madre dei figli di Zebedeo tornerà alla carica nello stesso senso (20, 20). La domanda dei discepoli guarda in primo luogo all’aspetto gerarchico. Gesù risponde con un chiaro insegnamento, che mette in primo piano l’aspetto spirituale: chi nella vita cristiana è degno di maggior stima davanti a Dio.

UN BAMBINO (2)
Ai tempi di Gesù il bambino ricordava un essere dipendente, a carico degli altri, che non rendeva, un essere bisognoso di protezione, non era tenuto in conto ed era anche disprezzato. Quando Gesù accoglie il bambino il suo atteggiamento è sulla stessa linea del suo atteggiamento di fronte ai poveri, ai pubblicani, ai peccatori.

SE NON VI CONVERTIRETE (3)
II termine greco “strefo”, traduce l’ebraico “sub”, tornare indietro. Proprio nel “tornare indietro” e nel riprendere le buone qualità del bambino: semplicità, remissività, accondiscendenza, umiltà, convinzione dia aver bisogno di Dio, ecc.., sta il segreto della vera grandezza.

NON ENTRERETE (3)
Ogni aspirazione alla preminenza e agli onori invece costituisce un ostacolo insormontabile per l’ingresso nel regno messianico.

DIVENTERA PICCOLO (4)
Quel che è niente e disprezzabile agli occhi del mondo, secondo una certa scala di valori, è grande agli occhi di Dio.

E CHI ACCOGLIE (5)
“Uno solo di questi bambini”, cioè un uomo, che messosi alla sequela di Gesù si è rivestito dello spirito di infanzia. “Accoglie me”. Gesù si identifica con questo discepolo, che si è fatto bambino e ha acquistato il primo posto nel regno. Gesù è presente dove c’è una persona disprezzata dal mondo. E ciò che dirà anche parlando dell’affamato, del prigioniero, dello straniero (25, 31-46)

CHI SCANDALIZZA… PICCOLI (6)
Gesù passa dai ” bambini” ai “piccoli”. I piccoli sono i discepoli, tra i quali possono esserci naturalmente anche i bambini, che hanno cominciato a seguire Gesù. Sono nulla per la loro condizione, non hanno una preminenza, ne vi aspirano, ma sono i più grandi, i più cari a Dio.

Sono persone dalla fede ancora fragile: non bisogna scandalizzarli ne abbandonarli, potrebbero smarrirsi. “Scandalo” etimologicamente è la pietra sul cammino sulla quale s’inciampa e fa cadere. Essere “pietra di scandalo” o “scandalo” significa essere per gli altri causa di stupore, spinta al peccato, scuotimento per la fede.

MEGLIO PER LUI (6)
“Meglio per lui”: è un’iperbole che serve a mettere in risalto la gravita del crimine di colui che col suo comportamento o per diretta seduzione fa deviare un credente dalla fede in Cristo. ” macina… da asino” è la pesante ruota di pietra che, fatta girare da un animale da tiro, serviva per macinare il frumento.

E’ INEVITABILE (7)
Seguono i v. 7-9 che parlano dell’inevitabilità degli scandali, cioè del fatto che sono una conseguenza logica e storica della natura umana corrotta e della necessità di essere drastici nell’evitarli: S’è la tua mano… se il tuo piede…

GUARDATEVI (10)
Dopo aver ammonito di non “‘disprezzare uno solo di questi piccoli”, asserisce che”;’ loro angeli in ciclo vedono sempre la faccia del Padre “. Gesù presuppone la dottrina degli angeli custodi, sviluppatasi nell’ A.T, (SI 91,11), e dice che gli angeli dei più piccoli tra i fedeli appartengono alla corte celeste e possono deferire al supremo tribunale divino ogni ingiustizia spirituale, come lo scandalo, subita dai loro protetti

III Domenica del Tempo Ordinario – Luca 1, 1-4; 4, 14-21

III Domenica del Tempo Ordinario – Luca 1, 1-4;  4, 14-21 – Anno C

1Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, 2come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, 3così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, 4in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.

14Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.

16Venne a Nazareth, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:

18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione

e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,

a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi,

19a proclamare l’anno di grazia del Signore.

20Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. 21Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

A differenza di Matteo e Marco, Luca colloca l’episodio di Nazareth e il discorso nella sinagoga all’inizio dell’attività di Gesù: ne fa un discorso inaugurale e programmatico, e lo utilizza come sommario che fa da apertura all’attività pubblica del Messia.

Gesù legge il passo di Isaia 61,1-2, ma lo modifica in parte, evidentemente in vista dei propri interessi. Tralascia «guarire i cuori contriti» (presente in Is 61,1) e introduce (citando Is 58,6) l’espressione «dare la libertà agli oppressi»; a proposito di Is 61,2 tralascia l’espressione «un giorno di vendetta per il nostro Dio» (espressione che limiterebbe il significato universale del brano). Con questi ritocchi Gesù fa del testo profetico un testo in cui si accentua l’opera di liberazione e l’universalità di questa liberazione.

La chiave del brano è il commento che Gesù fa al testo di Isaia: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi». Gesù non dà la spiegazione esegetica del testo, né si attarda in alcun modo alla ricerca di applicazioni morali (come facevano gli abituali predicatori nelle riunioni della sinagoga), ma attira l’attenzione sull’evento che lo compie: la sua venuta, appunto. L’attenzione passa così dalla Scrittura al predicatore. È questo il punto centrale: la venuta di Gesù. Con la sua venuta l’attesa del profeta è compiuta. In tal modo Gesù si proclama Messia ed esprime la propria missione ricorrendo alle parole del profeta: si identifica con la sua attesa, ma si distacca quando dichiara che è compiuta oggi. L’oggi è la novità di Gesù. L’oggi è un termine caratteristico di Luca (2,11; 3,22; 5,26; 13,22-23; 19,5; 23,43): indica che gli ultimi tempi sono iniziati, che il tempo adatto è in svolgimento, che la storia degli uomini sta attraversando un momento eccezionale di grazia. L’oggi non è soltanto una nota cronologica riguardante Gesù: si prolunga nel tempo della Chiesa. Il tempo messianico è in svolgimento, e il nostro tempo è l’oggi di Dio. Gli ebrei attendevano nel futuro il tempo adatto alla trasformazione: per il cristiano il Messia, che rende possibile il mondo nuovo, è già venuto.

La missione di Gesù è particolarmente in direzione dei poveri e degli oppressi. La citazione di Isaia è in proposito chiarissima. Gesù rivolge la «lieta notizia» agli oppressi, agli sfortunati, a tutti quegli uomini che, in altre parole, ne hanno bisogno, più sfortunati degli altri, emarginati. Potremmo riformulare la lieta notizia di Gesù in questi termini: Dio ama ogni uomo, senza differenze, dunque ogni uomo conta, ogni uomo è prezioso. Non ci sono di fronte a Dio emarginati, anzi gli ultimi sono per lui i primi. Una notizia, questa, che rende di colpo ingiustificate tutte le emarginazioni che noi costruiamo di continuo, e che dà ai poveri e agli esclusi una dignità capace di scuoterli, capace di infondere dignità e speranza. (B. Maggioni)

II Domenica del Tempo Ordinario – Giovanni 2, 1-11

II Domenica del Tempo Ordinario – Giovanni 2, 1-11 – Anno C

In quel tempo, 1vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». 6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». 11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

Il gesto compiuto da Gesù a Cana di Galilea (Gv, 2,1-11) è una manifestazione messianica, come il Battesimo al Giordano. Ma mentre al Battesimo è il Padre che svela il significato profondo del Cristo, qui è Gesù stesso che si manifesta. Il miracolo non sottolinea la potenza del Cristo, ma è piuttosto attento ad alcuni particolari, come l’abbondanza del vino, la sua ottima qualità, il fatto stesso che esso sostituisca l’acqua preparata per le abluzioni rituali. Sono tutti tratti messianici. Gesù è il Messia, la nuova Alleanza e la nuova legge. Ma si noti subito un particolare importante. Nella messianicità di Gesù è contenuta l’idea di un cambiamento: c’è qualcosa di vecchio (l’acqua) che deve venir meno per lasciar posto a qualcosa di nuovo (il vino). L’antica legge deve lasciar posto alla nuova.

Il messianismo che Gesù rivela a Cana di Galilea è tutto proteso verso l’ora (v. 4), che sappiamo essere l’ora della Croce e risurrezione. È proprio alla luce della Croce che si capisce la natura profonda della gloria che a Cana, per la prima volta, si è fatta manifesta. Potrebbe sembrare strano e scandaloso affermare che la gloria si riveli sulla Croce, che è il luogo dell’umiliazione e della sconfitta. Ma Giovanni insiste su questo pensiero. E ha ragione. La gloria di Dio, (in altre parole ciò che lo rivela al mondo, ciò che lo visibilizza: questo è, appunto, il significato di gloria) è l’inaudita potenza dell’amore che resta fedele fino al martirio.

I discepoli credettero in Gesù. La costruzione grammaticale (eis e l’accusativo) denota che la fede è uno slancio. Non si crede in una cosa o in una dottrina, ma in una persona. Il discepolo si fida di Gesù, si abbandona a lui e si lascia condurre. Come l’atteggiamento di Maria: «Fate qualunque cosa vi dirà», «Fate qualunque cosa vi dirà» (v. 5). La messianità di Gesù include un passaggio dal vecchio al nuovo. La fede è conversione, apertura al nuovo, disponibilità. Come la fede di Maria che accetta l’apparente rifiuto e si lascia condurre verso un’attesa superiore. «Non hanno più vino»: queste parole di Maria esprimono, discretamente, la speranza del miracolo. La risposta di Gesù esprime una chiara reticenza, pur acconsentendo, poi, a fare il miracolo. La reticenza di Gesù ha lo scopo di far passare la fede della Chiesa (di cui Maria è il modello) da una fede incipiente a una fede più matura. Gli uomini cercano nel miracolo la soluzione a un loro imbarazzo: Gesù fa il miracolo per una rivelazione superiore. (B. Maggioni, biblista)

Battesimo del Signore – Luca 3, 15-16 / 21-22

Battesimo del Signore – Luca 3, 15-16 / 21-22 – Anno C

In quel tempo, 15poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, 16Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Il gesto di Gesù che si sottomette – assieme a tutto il popolo (Luca lo nota con compiacenza) – al battesimo di Giovanni «in remissione dei peccati» esprime, anzitutto, un atteggiamento di profonda solidarietà di Gesù con il suo popolo peccatore. Egli non si pone al di fuori della storia del suo popolo, ma si inserisce in essa, profondamente solidale con il momento di conversione che il popolo sta vivendo. È questa logica di solidarietà che costituisce la novità del messianismo di Gesù: Egli non si sottopone al battesimo per i propri peccati, ma per i peccati del suo popolo. Non prende le distanze dagli uomini peccatori, ma prende sulle sue spalle i loro peccati. Questa logica di solidarietà e sostituzione guida tutta la vita di Gesù e raggiunge il suo culmine sulla Croce. Nel battesimo al Giordano troviamo il germe dell’intera vita di Gesù, come nel nostro battesimo c’è il germe di tutta la nostra esistenza cristiana. I cieli che si aprono, lo Spirito che discende, le parole della voce celeste richiamano alla memoria il racconto delle vocazioni profetiche, per esempio la vocazione di Isaia, Geremia ed Ezechiele. Ma pur richiamandosi al genere delle vocazioni profetiche, il racconto evangelico è molto diverso. I profeti si esprimono come se la forza dello Spirito di Dio, venuta dall’esterno, si impossessi di loro e trasformi la loro personalità. Nulla di questo al battesimo di Gesù. La teofania, semplicemente, svela ciò che Gesù è già. È sempre utile, se si vuole comprendere un passo evangelico, ricreare il sottofondo anticotestamentario in cui si muove. Il sottofondo anticotestamentario del nostro passo è molto ricco e complesso, ma noi ci accontentiamo del riferimento a Isaia 42,1-7, un passo profetico che è richiamato nello stesso vangelo e riproposto come prima lettura nella Messa. Sottolinea molto bene che il battesimo – quello di Gesù e il nostro – include una missione. Una missione da svolgersi, come dice il profeta, nella fermezza («Proclamerà il diritto con fermezza») e, insieme nella dolcezza del dialogo: «Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta». Una missione che non percorre le vie del frastuono, ma dell’umiltà: «Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce». Una missione che dà speranza e salvezza agli infelici: «Perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri». Una missione, infine, universale: i suoi confini sono la «terra», «le nazioni», «le isole lontane».

Maria Santissima Madre di Dio – Luca 2, 16-21

Maria Santissima Madre di Dio – Luca 2, 16-21 – Anno C

In quel tempo, [i pastori] 16 andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. 17 E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18 Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. 19 Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. 20 I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
21 Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

Il Vangelo della festa di Maria Madre di Dio (primo giorno dell’anno) è una parte del Vangelo del Natale. E questo è già significativo. Il bambino e la madre non sono separabili. Nel Vangelo di oggi la Madre è ricordata con discrezione, come sempre. La Madre è all’ombra del Figlio. Ma nessun luogo è più luminoso di questo. Nel brano evangelico di oggi che parla anzitutto di Gesù, la Madre è ricordata tre volte: i pastori trovarono il bambino e la madre; passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, fu dato al bambino il nome «Gesù», «come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre»; Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore. L’annotazione più importante è l’ultima che abbiamo trascritto. Lo stupore di Maria si distingue dallo stupore generale. Anche Maria sente le parole («tutte queste parole»), che spiegano l’evento che ella stessa vede e vive. Parole che ella custodisce nel suo cuore, dentro di sé. Le parole, che in altri suscitano stupore, in lei si fanno ascolto consapevole, pensoso e intelligente: il cuore indica tutto questo. Il verbo custodire – è il solo verbo all’indicativo e che, perciò, regge tutta la frase – non dice semplicemente il ricordare, ma sottolinea la cura e l’attenzione, come quando si ha fra le mani una cosa preziosa. L’ascolto interiore di Maria è prolungato, non di un solo momento, come suggerisce il verbo al tempo perfetto. E il participio «meditandole» dice poi che il custodire di Maria non è un conservare passivo, inerte, bensì un custodire attivo e vivo, che collega e confronta una cosa con l’altra (tale è il senso del verbo greco: confrontare, comparare), cercando di comprendere la logica profonda, la direzione e la verità di cose che possono sembrare slegate o addirittura in contrasto fra loro. Ed è appunto ciò che fa Maria sentendo, da una parte, le parole che proclamano la gloria del Bambino (parole da lei stessa sentite dall’angelo nell’annunciazione) e, dall’altra, vedendo «un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia». È la solita tensione fra grandezza e piccolezza, gloria e povertà che costituisce l’ossatura dell’evento cristiano. L’ascolto di Maria diventa dunque un’interpretazione vera e propria che fa luce sul mistero di Gesù. Maria non è solo la Madre di Gesù, ne è anche la più profonda interprete. (don Bruno Maggioni, biblista)

II Domenica dopo Natale – Giovanni 1, 1-18

Dal vangelo  secondo Giovanni 1, 1-18 – Anno C

1In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

2Egli era, in principio, presso Dio:

3tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.

4In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;

5la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.

6Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.

7Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.

8Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.

9Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.

10Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.

11Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.

12A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome,

13i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.

14E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.

15Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».

16Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.

17Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.

18Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

 

Giovanni, unico tra gli evangelisti, comincia il Vangelo non con un racconto, ma con un inno che opera uno sfondamento dello spazio e del tempo: in principio era il Verbo e il Verbo era Dio. In principio “bereshit”, prima parola della Bibbia, punto sorgivo da cui tutto ha inizio e senso.

Un principio che non è solo cronologico, ma fondamento, base e destino. Senza di lui nulla di ciò che esiste è stato fatto. Un’esplosione di bene, e non il caos, ha dato origine all’universo. Non solo gli esseri umani, ma anche la stella e il filo d’erba e la pietra e lo scricciolo appena uscito dal bosco, tutto è stato plasmato dalle sue mani. Siamo da forze buone miracolosamente avvolti, scaturiti da una sorgente buona che continua ad alimentarci, che non verrà mai meno, fonte alla quale possiamo sempre attingere. E scoprire così che in gioco nella nostra vita c’è sempre una vita più grande di noi, e che il nostro segreto è oltre noi.

Mettere Dio “in principio”, significa anche metterlo al centro e alla fine. Veniva nel mondo la luce vera quella che illumina ogni uomo. Ogni uomo, e vuol dire davvero così: ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, ogni anziano è illuminato; nessuno escluso, i buoni e i meno buoni, i giusti e i feriti, sotto ogni cielo, nella chiesa e fuori dalla chiesa, nessuna vita è senza un grammo di quella luce increata, che le tenebre non hanno vinto, che non vinceranno mai. In Lui era la vita…

Cristo non è venuto a portare una nuova teoria religiosa o un pensiero più evoluto, ma a comunicare vita, e il desiderio di ulteriore vita. Qui è la vertigine del Natale: la vita stessa di Dio in noi. Profondità ultima dell’Incarnazione.. Il verbo si è fatto carne. Non solo si è fatto uomo, e ci sarebbe bastato; non solo si è fatto Gesù di Nazareth, il figlio della bellissima, e sarebbe bastato ancor di più; ma si è fatto carne, creta, fragilità, bambino impotente, affamato di latte e di carezze, agnello inchiodato alla croce, in cui grida tutto il dolore del mondo. Venne fra i suoi ma i suoi non l’hanno accolto. Dio non si merita, si accoglie.

Parola bella che sa di porte che si aprono, parola semplice come la mia libertà, parola dolce di grembi che fanno spazio alla vita e danzano: si accoglie solo ciò che dà gioia. A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. Il potere, l’energia felice, la potenza gioiosa di diventare ciò che siamo: figli dell’amore e della luce, i due più bei nomi di Dio. Cristo, energia di nascite, nasce perché io nasca. Nasca nuovo e diverso. La sua nascita vuole la mia nascita a figlio. Perché non c’è altro senso, non c’è altro destino, per noi, che diventare come lui.

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe – Luca 2, 41-52

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe – Luca 2, 41-52 – Anno C

41I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
51Scese dunque con loro e venne a Nazareth e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

Il ritrovamento di Gesù fanciullo nel tempio potrebbe sembrare un semplice episodio di vita familiare. E invece il suo significato è molto più profondo.

Il suo senso è tutto racchiuso nella domanda della Madre e nella risposta del Figlio (2,48-49). Troviamo qui la prima parola di Gesù, l’unica nei racconti dell’infanzia. Una parola, per giunta, di cui i genitori non compresero il significato. Si tratta dunque di una parola inaspettata e dal significato molto profondo.

A volte si sottolinea che con il suo gesto e le sue parole Gesù abbia inteso prefigurare il futuro distacco dalla famiglia e affermare la propria libertà e il primato della propria missione. È certamente un’interpretazione che ha molta parte di verità. Però resta ancora debole, in ogni caso ancora troppo all’esterno del mistero di Gesù. Dicendo «tuo padre», Maria pensava a Giuseppe. Dicendo «mio Padre», Gesù pensava a Dio. Il contrasto è significativo, quasi duro. Gesù afferma la sua origine dal Padre. E nella domanda rivolta ai genitori («Non sapevate che è necessario che io sia nelle cose del Padre mio?»), Egli svela la sua obbedienza senza riserve al Padre. Le «cose» del Padre mio è un’espressione generica, ma proprio per questo significativa. Le «cose» possono essere la casa, gli interessi, i desideri, la volontà, i progetti: un’espressione volutamente generica per suggerire la totalità. Ma è ancora più suggestiva l’espressione «essere in», che a volte si traduce con un semplice «occuparsi». In realtà «essere in» è ben più del semplice occuparsi: esprime un atteggiamento che tocca la persona e l’esistenza. Ma è in quel «è necessario» – che più avanti Gesù riprenderà per indicare la sua obbedienza fino alla Croce – che si nasconde il segreto più sconcertante della rivelazione di Gesù, quello più difficile da capire.

«Ma essi non compresero» annota l’evangelista. Che cosa non hanno compreso? L’appartenenza di Gesù al Padre? La sua separazione dalla famiglia? O quel «è necessario» che Gesù ripeterà più avanti (9,22), lungo la sua missione, per esprimere la «necessità» della Croce?. Quel che è certo è che sia il gesto di Gesù sia le sue parole rimasero enigmatici. Nascondevano qualcosa che si sarebbe svelato dopo. È l’identità profonda di Gesù che ancora non si è svelata, tutta racchiusa in quel «è necessario». Bisognerà aspettare la Croce perché possa svelarsi nella sua chiarezza.