XI Domenica del Tempo Ordinario – Marco 4, 26-34

Dal vangelo  secondo Marco  4, 26-34

26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

30Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

33Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Due piccole parabole (il grano che spunta da solo, il seme di senape): storie di terra che Gesù fa diventare storie di Dio. Con parole che sanno di casa, di orto, di campo, ci porta alla scuola dei semi e di madre terra, cancella la distanza tra Dio e la vita. Siamo convocati davanti al mistero del germoglio e delle cose che nascono, chiamati «a decifrare la nostra sacralità, esplorando quella del mondo» (P. Ricoeur). Nel Vangelo, la puntina verde di un germoglio di grano e un minuscolo semino diventano personaggi di un annuncio, una rivelazione del divino (Laudato sì), una sillaba del messaggio di Dio. Chi ha occhi puri e meravigliabili, come quelli di un bambino, può vedere il divino che traspare dal fondo di ogni essere (T. De Chardin). La terra e il Regno sono un appello allo stupore, a un sentimento lungo che diventa atteggiamento di vita. È commovente e affascinante leggere il mondo con lo sguardo di Gesù, a partire non da un cedro gigante sulla cima del monte (come Ezechiele nella prima lettura) ma dall’orto di casa. Leggero e liberatorio leggere il Regno dei cieli dal basso, da dove il germoglio che spunta guarda il mondo, rasoterra, anzi: «raso le margherite» come mi correggeva un bambino, o i gigli del campo. Il terreno produce da sé, che tu dorma o vegli: le cose più importanti non vanno cercate, vanno attese (S. Weil), non dipendono da noi, non le devi forzare. Perché Dio è all’opera, e tutto il mondo è un grembo, un fiume di vita che scorre verso la pienezza. Il granellino di senape è incamminato verso la grande pianta futura che non ha altro scopo che quello di essere utile ad altri viventi, fosse anche solo agli uccelli del cielo. È nella natura della natura di essere dono: accogliere, offrire riparo, frescura, cibo, ristoro. È nella natura di Dio e anche dell’uomo. Dio agisce non per sottrazione, mai, ma sempre per addizione, aggiunta, intensificazione, incremento di vita: c’è come una dinamica di crescita insediata al centro della vita. La incrollabile fiducia del Creatore nei piccoli segni di vita ci chiama a prendere sul serio l’economia della piccolezza ci porta a guardare il mondo, e le nostre ferite, in altro modo. A cercare i re di domani tra gli scartati e i poveri di oggi, a prendere molto sul serio i giovani e i bambini, ad aver cura dell’anello debole della catena sociale, a trovare meriti là dove l’economia della grandezza sa vedere solo demeriti. Splendida visione di Gesù sul mondo, sulla persona, sulla terra: il mondo è un immenso parto, dove tutto è in cammino, con il suo ritmo misterioso, verso la pienezza del Regno. Che verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme. Verso la fioritura della vita, Il Regno è presentato come un contrasto, non uno scontro, bensì un contrasto di crescita, di vita. Dio come un contrasto vitale. Una dinamica che si insedia al centro della vita. verso il paradigma della pienezza e fecondità. Il Vangelo sogna mietiture fiduciose, frutto pronto, pane sulla tavola. Positività. Gioia del raccolto. (p. E. Ronchi)

Solennità del Corpus Domini – Marco 14, 12-16 22-26

Dal vangelo  secondo Marco 14, 12-16  22-26

12Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

22E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». 26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Il gesto del pane e del vino, le parole di commento, tutto converge nell’indicare la vita di Gesù come una vita donata. Il gesto eucaristico svela la «verità» di Gesù, cioè quella tensione interiore che ha guidato la sua vita fin dall’inizio. Nell’amore di Gesù non ci sono esclusi o emarginati, non ci sono i primi e gli ultimi. Nell’Eucaristia le prime comunità scorgevano non semplicemente la presenza di Dio, ma la presenza di un volto preciso di Dio. Nell’Eucaristia bisogna scorgere e celebrare quel Dio che in Gesù si è manifestato come condivisione, amore e servizio.

Il gesto eucaristico è collocato da Marco in un contesto di tradimento (Giuda) e di abbandono (il rinnegamento di Pietro e l’abbandono dei discepoli). Si tratta di un elemento comune e tradizionale, ma sembra che Marco lo sottolinei con forza particolare. Tanto è vero che la cornice del tradimento e dell’abbandono si prolunga anche nel racconto del Getsemani e dell’arresto. Nello stridente contrasto fra il gesto di Gesù e il tradimento degli uomini, la comunità ha colto al grandezza dell’amore del Cristo, la sua gratuità, al sua ostinazione. Ma mi sembra che Marco colga anche un duplice avvertimento: la comunità è invitata a non scandalizzarsi allorché scoprirà nel proprio seno il tradimento e il peccato: è un’esperienza che Gesù stesso ha vissuto e che ha previsto per la sua Chiesa. Viene così tolto alla radice ogni motivo in base al quale poter dire: questa non è più la Chiesa amata da Dio. Contemporaneamente la comunità è invitata a non cullarsi nella falsa sicurezza, e a non presumere di sé (come invece Pietro): il peccato è sempre possibile, ed è male fidarsi delle proprie forze. Per tutto questo al celebrazione eucaristica è. insieme, giudizio e consolazione, mette in luce contemporaneamente l’ostinato amore del Cristo e il peccato e le divisioni della comunità. Anche le divisioni della comunità devono apparire. Ma non per dire: permangono le divisioni, tralasciamo l’Eucaristia. Bensì per concludere: nonostante le divisioni, Cristo ci salva.

Il vino deve essere bevuto e il pane deve essere mangiato: «Prendete, mangiate». La vita del Maestro deve essere condivisa dal discepolo. Non basta affermare nel pane e nel vino la presenza del Figlio di Dio. Occorre prendervi parte. L’Eucaristia è contemporaneamente presenza di Dio e progetto ecclesiale. Dalla prima comunione (quella di Dio con noi) scaturisce la seconda (quella fra noi): la via del Cristo (una vita in dono, per tutti, nonostante il rifiuto) definisce la sequela. (B. Maggiori, biblista)

Santissima Trinità – Matteo 28, 16-20

Dal vangelo  secondo Matteo 28, 16-20

16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

L’evangelista Matteo chiude il suo Vangelo con alcune parole di Gesù molto solenni: sono parole che definiscono la Chiesa e la sua missione. A Gesù «è stato dato ogni potere in cielo e in terra»: è questa «signoria universale» la radice da cui scaturisce l’universalità della missione. Tutto il breve discorso di Gesù è dominato dall’idea di pienezza e di universalità: l’aggettivo «tutto» ricorre quattro volte (tutto il potere, tutte le genti, tutto ciò che ho ordinato, tutti i giorni). Fare i discepoli fra tutte le genti non significa, necessariamente, che tutti debbano convertirsi. Ciò che importa è che il popolo di Dio sia formato «fra tutte le genti»: magari una minoranza, ma fra tutte le genti. Scopo della missione è «fare discepoli». L’espressione è carica di tutto il significato che «discepolo» ha nel Vangelo. I discepoli devono insegnare: ma non sono maestri, restano discepoli. Non insegnano qualcosa di proprio, ma solo «tutto ciò che egli ha comandato». È un insegnamento, dunque, nella più assoluta fedeltà e dipendenza: nasce da un ascolto e dall’essere discepoli. «Sarò con voi sino alla fine del tempo»: è questa l’affermazione con la quale Matteo termina il Vangelo. Il Signore risorto non è partito, ma è rimasto. La promessa che il nome di Gesù includeva («Emmanuele, Dio con noi») è qui mantenuta. Il nome di Dio continua ad essere «eccomi qua». Ma il punto che la liturgia sottolinea in modo particolare è un altro. Il discepolo non è battezzato nel nome di Gesù, e neppure nel nome di Dio: è battezzato nel «nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». L’esistenza cristiana inizia – e si svolge – nel nome di, cioè in relazione al Padre, al Figlio e allo Spirito. «Nel nome» non significa solo «con l’autorità di», ma «in comunione con». Impartito nel nome della Trinità, il battesimo ci introduce nel dialogo di amore delle tre divine Persone. Il passo di Matteo ci aiuta a prendere coscienza della concezione cristiana di Dio: un Dio che è amore e dialogo, non solo perché ci ama e dialoga, ma perché in se stesso è un dialogo d’amore. Ma questo non rinnova soltanto la nostra concezione di Dio, bensì anche la verità di noi stessi. Se la Bibbia ripete che dobbiamo vivere nell’amore, nel dialogo e nella comunione, è perché sa che siamo tutti «immagine di Dio». Incontrare Dio, fare esperienza di Dio, parlare di Dio, dar gloria a Dio, tutto questo significa – per un cristiano che sa che Dio è Padre, Figlio e Spirito – vivere in una costante dimensione di amore, di dialogo e di dono. La Trinità è un mistero davvero luminoso: rivelandoci Dio, ha rivelato chi siamo noi. (B. Maggioni, biblista)

Domenica di Pentecoste – Giovanni 15, 26-27; 16, 12-15

Dal vangelo  secondo Giovanni 15, 26-27;  16, 12-15

«26Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; 27e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio».
«12Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. 13Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. 14Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. 15Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

Lo Spirito è chiamato a compiere tre miracoli. Il primo è di attualizzare l’evento storico di Gesù, accaduto in un tempo e in un luogo, rendendolo disponibile per ogni tempo e per ogni luogo. Lo Spirito è il protagonista che mantiene aperta la storia di Gesù rendendola perennemente attuale e salvifica. Senza lo Spirito, la storia di Gesù – compresa la sua risurrezione – sarebbe rimasta una storia chiusa nel passato, non un evento perennemente contemporaneo. Lo Spirito è la continuità fra il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa. Certamente ci sono anche altri fattori di continuità: le Scritture, il ricordo delle parole di Gesù, gli apostoli. Tuttavia il vero fattore della continuità è lo Spirito. Il secondo miracolo – sul quale il brano evangelico di questa domenica insiste – è di trasformare il discepolo in testimone: «Lo Spirito di verità… testimonierà in mio favore. Anche voi mi testimonierete, perché siete con me dall’inizio». Nel grande processo tra Cristo e il mondo che si svolge entro tutta la storia, lo Spirito depone in favore di Gesù. Non si tratta di una testimonianza direttamente rivolta al mondo, ma rivolta al mondo attraverso il discepolo. Lo Spirito testimonia nel cuore del discepolo. Davanti alle ostilità che incontreranno i discepoli saranno esposti al dubbio, allo scandalo e allo scoraggiamento: lo Spirito difenderà Gesù nel loro cuore, li renderà sicuro nella loro disobbedienza al mondo. I discepoli avranno bisogno di certezza: lo Spirito gliela offrirà. Il terzo miracolo è di suscitare un incontro personale, intimo, pieno, con il Signore e la sua verità: «Lo Spirito Santo… vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà quanto io vi ho detto… Egli vi guiderà alla pienezza della verità». L’insegnamento dello Spirito è anzitutto memoria: lo Spirito ripete le parole di Gesù. Non aggiunge a esso altre sue personali verità. E tuttavia il suo insegnamento non è ripetitivo, non è semplice memoria. Non aggiunge nulla alla rivelazione di Gesù, però la interiorizza e la rende presente in tutta la sua pienezza. E come abbiamo già visto la attualizza. Il Vangelo dice: «Vi guiderà verso e dentro la pienezza della verità». Dunque una conoscenza interiore, viva e attuale e progressiva. Non un progressivo accumulo di conoscenze, ma piuttosto un progressivo viaggio verso il centro: dall’esterno all’interno, dalla periferia al centro, da una conoscenza per sentito dire, a una comprensione personale, attuale e trasformante.

Ascensione del Signore – Marco 16, 15-20

Dal vangelo  secondo Marco 16, 15-20

15E disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. 16Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. 17Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, 18prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
19Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
20Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

Nel brano di questa domenica (16,15-20) Marco conclude l’intero suo racconto evangelico. Una conclusione che non chiude, però, il discorso, bensì lo apre. Inizia un cammino nuovo, non più del solo Gesù, ma di Gesù e della sua Chiesa. Ma quale cammino? In che direzione? Con quale modalità? Si tratta anzitutto di un cammino universale: in tutto il mondo, a ogni creatura, dappertutto (v. 20). Ciascun uomo, dovunque sia e a qualsiasi razza appartenga, ha il diritto di sentire l’annuncio del Vangelo. Per Gesù – e per i suoi missionari – non esistono i vicini e i lontani, i primi e gli ultimi. Gesù non dice ai discepoli di iniziare la missione da Gerusalemme: li invia subito in tutto il mondo. Il compito è quello di «predicare», un termine questo che merita una spiegazione. Non significa semplicemente tenere una istruzione o una esortazione o un sermone edificante. Il verbo «predicare» indica l’annuncio di un evento, di una notizia, non di una dottrina. Si tratta di una notizia decisiva: non è solo un’informazione, ma un appello. Tanto è vero che proprio nella sua accoglienza o nel suo rifiuto l’uomo gioca il suo destino: «sarà salvato», «sarà condannato» (v. 16). È questa un’affermazione dura, e certamente da intendere con le dovute precisazioni. Ma è pur sempre un’affermazione che non si può cancellare dal Vangelo. Il Vangelo predicato diventa credibile e visibile dai segni che il discepolo compie. Ma deve trattarsi di segni che lasciano trasparire la potenza di Dio, non quella dell’uomo. E deve trattarsi di segni che riproducono quelli compiuti da Gesù: le stesse modalità, lo stesso stile, gli stessi scopi. Non si dimentichi, poi, che il grande segno compiuto da Gesù è stata la sua vita e la sua morte: il miracolo di una incondizionata dedizione a Dio e agli uomini. Gesù ha terminato il suo cammino e si siede, i discepoli invece iniziano il loro cammino e partono. Gesù sale in cielo e i discepoli vanno nel mondo. Ma la partenza di Gesù non è una vera assenza, bensì un’altra modalità di presenza: «Il Signore operava insieme con loro e dava fondamento alla Parola» (16,20). Un’ultima osservazione: Gesù (16,14) «rimproverò i discepoli per la loro incredulità e durezza di cuore». Rimprovera i suoi discepoli per la loro incredulità e tuttavia li invia a predicare nel mondo intero. Un contrasto sorprendente. Il discepolo viene meno ma non viene meno la fedeltà di Gesù nei suoi confronti. È per questo che il cammino della Chiesa rimane, nonostante tutto, un cammino aperto e ricco di possibilità. (B. Maggioni, biblista)

VI Domenica di Pasqua – Giovanni 15, 9-17

Dal vangelo  secondo Giovanni 15, 9-17

«9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Il comando dell’amore – che apre (v. 12) e chiude il passo evangelico di questa domenica (v. 17) – trova in Gesù il modello, la ragione e la misura: “Come io ho amato voi”. È un amore vicendevole: “amatevi reciprocamente”. Ed è un amore che esce dal chiuso della comunità e si dilata, missionario, fecondo: spinge a una partenza “perché andiate e portiate frutto”. Si osservi poi l’antitesi servo/amico, che struttura l’intero passo. L’amore di Gesù, modello dell’amore fraterno, è un amore di amicizia, dunque un rapporto confidente fra persone, un dialogo. Tre sono le caratteristiche di questo rapporto amicale: l’estrema dedizione (“nessun amore è più grande di chi dà la vita per i suoi amici”); la confidente familiarità (“vi ho confidato tutto ciò che ho ascoltato dal Padre mio”); la scelta gratuita, la predilezione (“non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”). Un secondo pensiero importante lo possiamo scorgere se leggiamo il nostro passo unendolo al Vangelo di domenica scorsa, nel quale si parlava di rimanere in Cristo come il tralcio nella vite. Leggendo insieme i due passi, si comprende che il rimanere in Gesù si realizza praticamente là dove si rimane nella sua Parola e nel suo amore, dove si osservano i suoi comandamenti. E il suo comandamento è appunto che ci si ami gli uni gli altri (v. 12). L’imperativo “rimanete in me” si risolve nell’imperativo “amatevi reciprocamente”. E ancora una riflessione. Gesù insiste sulla reciprocità dell’amore, ma al tempo stesso la sconvolge, perché a modello e fondamento dell’amore reciproco pone il “come io ho amato voi”, cioè la Croce, dunque la gratuità. La reciprocità cristiana nasce dalla gratuità. L’amore cristiano è asimmetrico: il dare e il ricevere non sono sullo stesso piano. La reciprocità evangelica non è il semplice scambio. La nota che la caratterizza è la gratuità che è la verità dell’amore di Dio, ed al tempo stesso la verità del nostro amore. Certo l’amore – quello di Dio come quello dell’uomo – tende alla reciprocità: la costruisce. Ma la reciprocità non è la sua radice né la sua misura. Se ami solo nella misura in cui sei ricambiato, il tuo non è vero amore. E se sei amato solo nella misura in cui dai, non ti senti veramente amato. Soltanto chi comprende questa gratuità nativa, originaria, dell’amore, è in condizione di comprendere Dio e se stesso. L’uomo è fatto per donarsi gratuitamente, totalmente: qui, nel farsi gratuità, trova la verità di se stesso, qui tocca il suo essere “immagine di Dio”. (B. Maggioni, biblista)

V Domenica di Pasqua – Giovanni 15, 1-8

Dal vangelo  secondo Giovanni 15, 1-8

1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Io sono la vera vite: un’affermazione che va letta alla stregua delle altre analoghe affermazioni di Gesù. «Sono il vero pane», «Io sono la luce». In queste affermazioni c’è una nota polemica: Gesù è la vera vite, il vero pane, la vera luce. Tutte queste affermazioni indicano che Gesù, e non altri, è in grado di offrirci quella vita che andiamo cercando. L’affermazione di Gesù («Io sono la vite») introduce una novità rispetto all’Antico Testamento. Là si dice che Dio ha una vigna, qui si afferma che Dio stesso è la vite. Nell’Antico Testamento si parla di una vigna e di una vite che non sono all’altezza delle attese di Dio. Se qui l’evangelista Giovanni può affermare che la vite è finalmente all’altezza delle attese di Dio, è unicamente perché Gesù è la vite. Ma qual è più ampiamente il punto di vista di Giovanni nel costruire questa allegoria? Solo un ringraziamento perché ora il discepolo, unito al Cristo, può finalmente portare frutti? O anche un elemento di inquietudine, di pericolo e quindi di avvertimento? L’uno e l’altro. C’è infatti anche il tema della prova (il Padre pota), che è un’indispensabile condizione di fecondità, ma che rimane pur sempre una possibilità di smarrimento. Si sottolinea che anche il cristiano può essere un ramo secco improduttivo! È la solita paradossale e sconcertante antinomia: la comunità è in Cristo, e quindi protetta, salvata e feconda, ma la possibilità del peccato non è assente. L’aggettivo «vera» che qualifica la vite si oppone all’antico popolo e a ogni altra pretesa di salvezza, ma il giudizio (chi non rimane in me viene gettato via) si riferisce agli stessi cristiani che non portano frutto. Criterio di giudizio sono i frutti, il ramo fruttifero viene potato, il ramo sterile bruciato. Ma più in profondità, il criterio di giudizio è il rimanere in Cristo, cioè la più assoluta dipendenza da lui: chi rimane in Gesù dà frutto, chi si stacca inaridisce. «Senza di me non potete far nulla» riprende un motivo caratteristico del Vangelo di Giovanni e, più in generale, dell’antropologia biblica: la struttura dell’uomo è essenzialmente aperta a Dio. Perciò l’uomo deve comprendere che la propria consistenza si trova nell’obbedienza, non nell’autonomia. Si tratta di una dipendenza da vivere anzitutto come fede e fiducia (nel senso cioè di appoggiarsi a Cristo e non a se stessi) e poi come osservanza dei comandamenti (cioè nel senso di conformare la vita alle parole di Gesù e non ai propri progetti). Non è però la dipendenza del servo nei confronti del padrone, ma piuttosto la comunione che corre fra amici: Giovanni infatti non parla soltanto di rimanere ma di un rimanere vicendevole: «Chi rimane in me e io in lui». (B. Maggioni, biblista)

IV Domenica di Pasqua – Giovanni 10, 11-18

Dal vangelo  secondo Giovanni 10, 11-18

11«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Io sono il buon pastore! Per sette volte Gesù si presenta: “Io sono” pane, vita, strada, verità, vite, porta, pastore buono. E non intende “buono” nel senso di paziente e delicato con pecore e agnelli; non un pastore, ma il pastore, quello vero, l’autentico. Non un pecoraio salariato, ma quello, l’unico, che mette sul piatto la sua vita. Sono il pastore bello, dice letteralmente il testo evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta nell’aspetto, ma nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo alto che il Vangelo oggi rilancia per ben cinque volte: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Qual è il contenuto di questo dono? Il massimo possibile: “Io offro la vita”. Molto di più che pascoli e acqua, infinitamente di più che erba e ovile sicuro. Il pastore è vero perché compie il gesto più regale e potente: dare, offrire, donare, gettare sulla bilancia la propria vita. Ecco il Dio-pastore che non chiede, offre; non prende niente e dona il meglio; non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono. Cerco di capire di più: con le parole “io offro la vita” Gesù non si riferisce al suo morire, quel venerdì, inchiodato a un legno. “Dare la vita” è il mestiere di Dio, il suo lavoro, la sua attività inesausta, inteso al modo delle madri, al modo della vite che dà linfa al tralci (Giovanni), della sorgente che zampilla acqua viva (Samaritana), del tronco d’olivo che trasmette potenza buona al ramo innestato (Paolo). Da lui la vita fluisce inesauribile, potente, illimitata. Il mercenario, il pecoraio, vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore. Al pastore invece importano, io gli importo. Verbo bellissimo: essere importanti per qualcuno! E mi commuove immaginare la sua voce che mi assicura: io mi prenderò cura della tua felicità. E qui la parabola, la similitudine del pastore bello si apre su di un piano non realistico, spiazzante, eccessivo: nessun pastore sulla terra è disposto a morire per le sue pecore; a battersi sì, ma a morire no; è più importante salvare la vita che il gregge; perdere la vita è qualcosa di irreparabile. E qui entra in gioco il Dio di Gesù, il Dio capovolto, il nostro Dio differente, il pastore che per salvare me, perde se stesso. L’immagine del pastore si apre su uno di quei dettagli che vanno oltre gli aspetti realistici della parabola (eccentrici li chiama Paul Ricoeur). Sono quelle feritoie che aprono sulla eccedenza di Dio, sul “di più” che viene da lui, sull’impensabile di un Dio più grande del nostro cuore. Di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino e vorrei mettergli fra le mani tutti gli agnellini del mondo. (B. Maggioni, biblista)

III Domenica di Pasqua – Luca 24, 35-48

Dal vangelo secondo Luca 24, 35-48

35Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

36Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». 37Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. 38Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». 40Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». 42Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.

44Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». 45Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture 46e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni».

Gesù ha già offerto prove convincenti della sua risurrezione: il sepolcro vuoto, la testimonianza degli angeli, l’apparizione ai discepoli sulla strada di Emmaus. Ma davanti all’insistenza e alla crescente mancanza di fede, Gesù offre prove sempre più tangibili: appare agli apostoli riuniti, mostra le sue ferite, si mette a tavola con loro. Con questo l’evangelista rivela un’evidente preoccupazione apologetica, e cioè quella di affermare la realtà e la concretezza della risurrezione. Gesù ha un vero corpo. Il Risorto non è un fantasma, un ideale, ma un essere reale. E forse più di tutti gli altri evangelisti, Luca insiste nell’affermare un reale passaggio dalla morte alla vita, una vita che viene da Dio e afferra l’uomo in tutta la sua concretezza e globalità. In questo racconto dell’apparizione agli undici soltanto Gesù agisce, parla: saluta, domanda e rimprovera, invita a rendersi conto della sua verità, mostra le mani e i piedi e, infine, mangia davanti ai discepoli. Al contrario, i discepoli sono fermi e silenziosi, tranne il gesto di offrire a Gesù una porzione di pesce. Di loro, però, sono descritti con attenzione i sentimenti interiori: lo sconcerto e la paura, il turbamento e il dubbio, lo stupore e l’incredulità, la gioia. Sono sentimenti che tradiscono una difficoltà a credere nella risurrezione. Non è facile credere nel Risorto. Persino la gioia – che si direbbe andare in senso contrario – è presentata da Luca come una ragione che, se pure in modo diverso dalla paura, rende increduli: «Ancora non credevano per la gioia». Dopo la risurrezione l’uomo resta dubbioso e incredulo, sia perché si trova davanti a un fatto assolutamente insolito, sia perché si imbatte in una sorpresa troppo bella, desiderata ma ritenuta impossibile. Ma a dispetto del turbamento e del dubbio dei discepoli, nella parte finale del suo racconto Luca traccia le linee fondamentali del vero discepolo, possiamo anche dire i tratti fondamentali della comunità cristiana: il dovere della testimonianza (il Cristo risorto non è solo da annunciare, ma da rendere credibile); il continuo riferimento alle Scritture; la conversione da operare dentro di sé e negli altri; la tensione universale.(B. Maggioni)

Domenica della Divina Misericordia – Giovanni 20, 19-31

Dal vangelo secondo Giovanni 20, 19-31

19La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». 20Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». 22Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

24Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

26Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». 27Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». 28Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

30Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 31Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

Le porte erano chiuse per paura dei giudei: così inizia il vangelo della seconda domenica di Pasqua. La paura è un sentimento che il lettore del quarto Vangelo già conosce: la paura della folla che non osa parlare in pubblico di Gesù; la paura dei genitori del cieco guarito che temono le reazioni dell’autorità; la paura di alcuni notabili che non hanno il coraggio di dichiararsi per timore di essere espulsi dalla sinagoga. In tutti i casi la paura è suscitata dalle autorità, che sono ostili nei confronti di Gesù. Ma se la paura può entrare nel cuore dell’uomo è unicamente perché vi trova un punto di appoggio. Non serve perciò chiudere le porte. La paura entra nel profondo se si è ricattabili, se qualcosa ci importa più di Gesù. Ora che il Signore è risorto, non c’è più ragione di avere paura. Perfino la morte è vinta: di che cosa avere paura? Per farsi riconoscere il Risorto sceglie i segni della crocifissione: il fianco e le mani trafitte. La risurrezione non fa dimenticare la Croce: la trasfigura. Le tracce della crocifissione sono ancora visibili, perché sono proprio loro a indicare l’identità del Risorto e a indicare la strada che il discepolo deve percorrere per raggiungerlo. «Pace a voi» è il saluto del Signore risorto. Ma è una pace diversa da come il mondo la pensa. Diversa perché dono di Dio, non semplice conquista della buona volontà dell’uomo. Diversa, perché va alla radice, là dove l’uomo decide la scelta della menzogna o della verità. Diversa perché è una pace che sa pagare il prezzo della verità. La pace di Gesù non promette di eliminare la Croce – né nella vita del cristiano né nella storia del mondo – ma rende certi della sua vittoria: «Io ho vinto il mondo» (16,33). I discepoli passano dalla paura alla gioia: «Si rallegrarono al vedere il Signore». Come la pace, anche la gioia è un dono del Risorto. Si tratta di una gioia che affonda le sue radici nell’amore. Pace e gioia sono al tempo stesso il dono del Risorto e le tracce per riconoscerlo. Ma occorre infrangere l’attaccamento a se stessi. Solo così non si è più ricattabili e si viene liberati dalla paura. La pace e la gioia fioriscono nella libertà e nel dono di sé, due condizioni senza le quali è impossibile alcuna esperienza della presenza del Risorto. Accanto alla fede degli altri discepoli, c’è anche il dubbio di Tommaso. Tommaso ha conosciuto il dubbio, come a volte avviene, ma questo non gli ha impedito di giungere, primo tra gli apostoli, a una fede piena: «Mio Signore e mio Dio». Non raramente anche una grande fede passa attraverso il dubbio. (B. Maggioni, biblista)