Serata con don Marco Pozza – Cappellano del carcere Due Palazzi di Padova

Dove Tu mi vuoi, io sarò

La seconda serata del Gennaio Salesiano, posticipata al 25 febbraio a causa della pandemia, ha visto come protagonista don Marco Pozza, cappellano del carcere Due Palazzi di Padova. Conosciuto anche con l’appellativo di “don Spritz”, in quanto in passato, seppur astemio, intercettava i giovani nel momento dell’aperitivo, ci spiega come il progetto di Dio si è rivelato nella sua vita.

Don Marco si definisce prete, scrittore, teologo, ma non disdegna la carica di priore: per lui non vi è differenza perché il rapporto con la gerarchia ecclesiastica lo mette a disagio. Opera in carcere perché il Signore ha voluto che facesse pace con la sua storia di uomo. Racconta, infatti, di esser cresciuto in un contesto familiare leghista e di aver interiorizzato, sin da bambino, le idee trasmesse dal nonno e dal papà, che per lui erano il Verbo. «Il mondo è composto da uomini buoni e uomini cattivi, esiste il bene ed esiste il male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato» e «Se un uomo violenta un bambina, è giusto che marcisca in prigione e che si butti la chiave». Queste le parole che ancora oggi risuonano nella sua testa. E chiarisce che lui e la sua famiglia si trovavano sempre dalla parte dei giusti.

Sacerdote anticonvenzionale, goliardico, provocatorio, nella quotidianità cerca di costruire una parrocchia con i carcerati, che lui non definisce delinquenti, bensì soggetti che hanno commesso atti delittuosi. Sostiene, inoltre, che nelle carceri dovrebbe esserci sempre un religioso innamorato di Dio e affascinato dalle loro storie di vita. Ci dice che il carcere Due Palazzi è esclusivamente maschile e accoglie ottocento uomini condannati in via definitiva, affiancati e supportati da vari teams di psicologi e volontari. In totale si contano 1.400 persone che lavorano nel carcere di Padova.

In costante lotta con Dio, in carcere ci è finito per casualità. Accadde che dovette sostituire un confratello nel celebrare la messa nel Regina Coeli di Roma: fu proprio in quell’occasione che, citando don Bosco, “tutto comprese”. Spinto dal senso di vergogna, di uomo peccatore, afferma che il carcere è il suo habitat naturale: non potrebbe resistere in un contesto diverso. È la vergogna, infatti, che gli permette di guardare negli occhi chi ha sbagliato e di poterlo perdonare, poiché è da condannare l’atto delittuoso, non la persona che lo ha commesso. È il senso di vergogna che lo porta a riconciliarsi con il suo essere uomo malpensante e peccatore. A questo proposito aggiunge che è fin troppo facile cadere in tentazione e noi, in quanto cristiani, siamo costantemente in bilico tra il bene e il male. È convinto che il peccato nasce dalla solitudine, che lui intende come deserto di relazioni affettive, e dai momenti bui della vita: è lì che il male si insidia e travolge, ma la vera redenzione, la vittoria più grande è risalire dal baratro in cui si è caduti. È toccare il fondo, passare attraverso l’inferno, ma trovare comunque la forza di riemergere. Come le storie dal sottosuolo dei carcerati che ascolta e fa sue. Come le vicissitudini del suo amico Alex Schwazer, podista italiano e vincitore di un oro olimpico a Pechino nel 2008, che, toccata la gloria, è caduto nel circolo vizioso del doping. Tuttavia si è rialzato, anche e soprattutto grazie all’amore della sua famiglia, benché sia squalificato per doping fino al 2024. Come Antonio, che in carcere ci è finito con l’accusa di spaccio e deve scontare una condanna di trent’anni (e di anni, quando è stato arrestato, ne aveva venti). La sua storia potrebbe appartenere a ognuno di noi: di origine campana, non scolarizzato, perché non hai mai sentito una vocazione per lo studio, fin da bambino lavora con i suoi genitori in un negozio di fiori. Sua mamma preparava dei bellissimi bouquet per le spose. Da adolescente affronta due tumori e viene coinvolto in un incidente stradale, dal quale esce illeso, ma questi momenti racchiudono l’inizio della fine: poco dopo, all’età di 43 anni, viene a mancare l’adorata mamma. Passa qualche anno e il papà decide di rifarsi una vita con un’altra donna, tuttavia Antonio non è d’accordo: la considera un’offesa nei confronti della mamma di cui sentiva, e sente tutt’ora, una profonda mancanza. Il padre di Antonio è convinto della sua scelta e dice al figlio che se non gli sta bene, può andare a stare per conto suo. Antonio esce, chiude la porta di casa e inizia a spacciare droga a Scampia: non farà mai più ritorno. Viene arrestato e, dopo una serie di peripezie, finisce a Padova, dove affianca don Marco a messa: è il suo chierichetto, oltre che aiuto cuoco. Talvolta, di nascosto, annusa il profumo dei fiori, a lui tanto caro perché simboleggia la sua infanzia. Custodisce gelosamente una poesia che parla di libertà, raffigurata con il volto di donna, e che per lui rappresenta la salvezza.

Animato da un fuoco inestinguibile, riconosce in papa Francesco un esempio, un rifugio, un papà, perché gli vuole bene come se ne vuole a un genitore. Il Santo Padre prega affinché l’inquietudine di don Marco, che lo rende così speciale, non si esaurisca. Ciò che distingue il cappellano è la sua passione, il rapporto tormentato con Dio, che è fonte di continui patimenti. Tuttavia don Marco è molto geloso di questi suoi tratti unici e rari, non conformi: afferma, e si mostra irremovibile, che nessuno lo può giudicare, eccetto Dio. Si rivede un po’ in Natanaele: richiamando il passo del Vangelo di Giovanni, che lo vede protagonista, ci offre una similitudine e con occhi lucidi dice che quando si è voltato a ricercare lo sguardo del Signore, Dio aveva già posato gli occhi su di lui. Il Suo progetto era stato tracciato prima ancora che don Marco potesse rendersene conto.

Alla domanda: «Cosa manca ai giovani d’oggi? Cosa possiamo fare per ripopolare le chiese e avvicinare i giovani alla fede?» risponde che la passione è il pilastro, che di questi tempi vacilla. La passione, puntualizza, intesa come sofferenza, patimento e tormento, come la passione di Cristo vissuta il venerdì Santo. Ecco cosa manca: non siamo allenati a sopportare la fatica, perché spesso ciò che sogniamo, ciò che ci rende felici, costa sacrificio, tuttavia non lo contempliamo; non siamo più capaci di ripartire dal dolore, a differenza dei suoi compagni di vita del carcere e ai quali si dedica con anima, corpo, spirito e cuore.